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I cristalli d’oro della giungla del Venezuela
di Michael Wachtler
Nel cuore della giungla amazzonica, in un “mondo dimenticato”, si rinvengono i cristalli d’oro più belli del mondo. Seguendo il percorso che li conduce verso le più importanti collezioni, nascono storie e leggende incredibili. È proprio questo, però, che rappresenta il mistero dell’oro e dei diamanti della Gran Sabana venezuelana.
Introduzione
La Gran Sabana venezuelana è ancor’oggi uno dei luoghi più selvaggi e
inesplorati della terra. È in questa estesa area, caratterizzata da
ripide montagne a cima piatta, denominate “Tepui” dagli amerindi
indigeni, che Sir Arthur Conan Doyle, l’ideatore di Sherlock Holmes, ha
ambientato la sua opera “Il Paradiso Perduto”, un racconto sugli ultimi
dinosauri viventi. Non avrebbe davvero potuto scegliere luogo più
adatto.
La nostra guida, “El Trompo Rojo”, ci aspettava all’aeroporto di
Caracas. In realtà il suo nome è Alejandro Stern ma in Venezuela è a
tutti noto solo con questo appellativo, lo stesso con cui viene chiamato
il diamante più raro mai rinvenuto in quel luogo, il diamante rosso
sangue: un unico carato del valore di circa un milione di euro.
Alejandro aveva trascorso la vita lavorando come ingegnere
nell’industria petrolifera ma a un certo punto si era stancato di questa
sua attività. Alcuni americani lo chiamavano “Jungle Buyer”, il
“compratore della giungla”, poiché si accaparrava i cristalli d’oro più
perfetti e i diamanti più grossi. Il primo cercatore d’oro, un signore
svizzero emigrato da tempo, che incontrammo nei pressi di una cittadina
dal nome caratteristico di El Dorado, ci raccontò della pericolosità di
questo luogo. Lui stesso viveva con cinque pallottole conficcate nel
ventre che gli erano state sparate mentre era intento a cercare l’oro.
Tutti coloro che incontrammo lungo il nostro cammino ci raccontarono la
storia della loro vita e nessuno di loro, a nostro modo di vedere, ci
parve ordinario. Molti erano fuggiti dai cosiddetti paesi civilizzati
con la speranza di poter seguire la loro idea di una vita libera.
La “Miniera El Infierno”
Tutti raccontavano la storia di quel “wire-gold”, un fantastico ricciolo
d’oro di 12 cm di larghezza e di 328 grammi di peso, rinvenuto nella
“Miniera El Infierno”. Era stato inizialmente acquistato dall’autore del
ritrovamento per 3.000 dollari, in seguito era finito negli Stati Uniti
per 50.000 dollari e infine era entrato a far parte della collezione di
un ricco mecenate per 70.000 dollari. Un ingiusto incremento monetario
da tutti deplorato. Chiunque però sognava un simile ritrovamento e
credeva che si sarebbe potuto ripetere in qualsiasi momento. Dopo un
lungo viaggio su un rumoroso elicottero ci sistemammo in una radura,
proprio nei pressi della leggendaria “Miniera El Infierno”. Scorgemmo
ovunque segni di scavi freschi ma dei cercatori d’oro nessuna traccia,
almeno finché non ci guardammo intorno con maggior attenzione. Nascosto
nella fitta boscaglia scovammo il primo cercatore, che se ne stava zitto
zitto temendo che si stesse avvicinando l’odiato militare.
“I garimpeiros si sono spostati in punti più fruttuosi”, ci spiegò
Alejandro. “Verso Hoja de Lata ad esempio”. Imparai che laddove è
presente in grandi quantità, l’oro si esaurisce rapidamente a seguito
del maggiore afflusso delle masse.
Nell’inferno di Hoja da Lata
Ancora nel 2009, Alejandro Stern riteneva imprudente recarsi in questo
luogo e non certo perché fosse un codardo. Nel 2008, i primi racconti
dei ritrovamenti di oro generarono un’enorme “bulla”, termine con cui
qui si definiva quel viavai che si scatenava ogniqualvolta veniva
scoperta un’elevata concentrazione di oro. L’orda selvaggia costituita
dalle più svariate nazionalità, a partire dai venezuelani impoveriti,
dai brasiliani e dai domenicani speranzosi fino ai guyanensi senza
legami, a cui si aggiungevano le donne obbligate a seguirli, conoscevano
una sola legge: quella della giungla. Persino il militare, per il resto
onnipresente, preferiva rimanerne al di fuori.
Dopo vari faticosi spostamenti lunghi diverse ore, raggiungemmo
finalmente San Martìn de Turumbang, sede del nostro quartier generale
per la “fin del muendo”. Dal 1895 il Venezuela e la Guyana si contendono
questo angolo di “fine del mondo”. Qualsiasi carta geografica qui è
inutile. Questa, inoltre, è una delle aree del Sudamerica di maggiore
diffusione della malaria. Già il nostro primo tentativo di raggiungere
alcuni “garimpeiros”, faticosamente intenti ad accaparrarsi alcuni
frammenti di oro in un fiume della giungla, terminò con il nostro
arresto. Dopo un’accesa contrattazione, la multa fu “One bottle of
whisky”; questo fu ciò che ci urlò contro una specie di rambo dai denti
d’oro e dai vistosi monili. Gli consegnammo così il suo amatissimo
scotch rallegrandoci della libertà conquistata.
Proseguimmo quindi la nostra faticosa impresa verso Hoja de Lata, il cui
significato altro non è che “lattina di alluminio”. Fummo avvisati che
in quel luogo la legge dell’uomo valeva meno che altrove: il più forte
aveva sempre ragione, il più debole sempre torto. Questa zona era
caratterizzata da una frenetica attività; erano tutti alle prese con
l’oro. L’estrema necessità li aveva spinti ad unirsi in piccole
cooperative: alcuni estraevano l’oro, altri frantumavano la sabbia
quarzosa, altri ancora bruciavano il mercurio velenoso nell’aria. Altro
non rimaneva che un cumulo di quel metallo che l’uomo brama da millenni,
ma che da sempre era così raro che mai fino ad oggi si è trovato in
abbondanza. Questi cercatori d’oro erano riconoscibili per gli zigomi
sporgenti e per i denti mancanti, conseguenze visibili di un silente
avvelenamento da mercurio.
Questi individui completamente sudici, che ai miei occhi non erano
assolutamente più perfidi della maggior parte di coloro che frequentano
il cosiddetto mondo finanziario civilizzato, ci misero in guardia
rispetto ai profondi buchi neri che si aprivano ovunque senza alcuna
recinzione protettiva. Fondi 150 metri, ci guardavano come se volessero
verificare che un tale viaggio all’inferno ci andasse davvero a genio.
In effetti, anche noi desideravamo scendere giù, benché la nostra Arca
di Noè fosse costituita solo da una fune logora a cui era legato un ramo
marcio su cui sedersi. Un “mineiro”, pronto ad aiutarci, collegò due
cavi elettrici. Scendemmo velocemente in profondità e, nella buona e
cattiva sorte, ci trovammo alla mercé dei tipi rimasti lassù, divenuti i
padroni del nostro destino. Una volta scesi, li lodammo come i migliori
di tutti i nostri amici. Quantomeno per quel giorno.
La “fine del mondo” si era trasformata nell”Infierno”. Laggiù, coloro
che nutrivano speranze strappavano l’oro dalla roccia quarzosa.
All’improvviso fummo circondati da un calore soffocante e opprimente.
Dai pori uscì il sudore come fosse una cascata e in un istante ci
ritrovammo madidi. I cercatori, estenuati dalla fatica, ci aiutarono nel
mostrarci come avremmo potuto arrampicarci al meglio ancor più giù,
attraverso il groviglio di passaggi e strette gallerie, procedendo su
travi di legno malsicure. Laggiù non si sapeva cosa fosse la cupidigia.
Probabilmente si dipendeva troppo l’uno dall’altro. Ci fermammo ad
osservare come estraevano l’oro e lo trasportavano su in piccoli secchi.
La speranza sembrava rallegrare ognuno di loro.
Noi, invece, già dopo pochi istanti, sentivamo il bisogno di prendere
aria. Eravamo, proprio come loro, irriconoscibili, sudici dalla testa ai
piedi. I nostri abiti alla moda non avevano nulla di diverso dai loro
logori indumenti da lavoro. Mossi dalla pietà, ci fecero risalire lungo
il pozzo stretto e, come fossimo loro pari, ci abbracciarono e ci misero
con forza sulla mano una pietra tipo selce contenente oro. Avrebbe
dovuto essere il nostro souvenir.
La vita dei cercatori d’oro nella giungla
Da Santa Elena de Uairén partimmo con un vecchio Cessna sgangherato alla
volta della località magica dei migliori cristalli d’oro che, in
occasione delle esposizioni di vendita, incantano i visitatori con il
loro luccichio dorato, le loro forme di cristallizzazione e il loro mito
legato all’avventura e all’insensatezza. Atterrammo su un terreno
accidentato in modo talmente brusco che temetti che l’aereo potesse
picchiare da un momento all’altro sul muso. L’agglomerato di capanne si
chiamava Parkupi. Scaricammo e trasbordammo le nostre cose, dato che, su
una barca di legno con un motore da 200 CV sovradimensionato, avremmo
dovuto inoltrarci ancor più nella foresta per ore attraverso i solitari
corsi del fiume.
Lungo alcune anse notai barracche rudimentali, accompagnate
dall’indispensabile “Dredge”, la draga, con cui lavavano l’oro. Non ne
avevo mai vista una uguale ma, d’altronde, nel settore del fai-da-te si
desidera essere sempre più ingegnosi degli altri. Si potevano quindi
trovare strutture enormi annerite dalla fuliggine così come traballanti
telai di legno o proprie invenzioni realizzate personalmente utilizzando
svariate tonnellate di rifiuti.
Chiunque offriva oro e diamanti. Scoprii le tantissime sfaccettature e
cristallizzazioni che poteva assumere l’oro così come i tanti colori dei
diamanti. Rimasi sorpreso del poco tempo necessario all’oro legato al
mercurio per poter essere “fuso puro” a fiamma viva. Da tempo avevo
rinunciato ad annotarmi i nomi dei fiumi, come Rio Icabarù o Rio
Cauripí, lungo i quali incontravamo delle rapide che eravamo costretti a
superare. A una particolarmente insidiosa, i Pemones, le tribù indigene
di questa zona, diedero il nome di Aicha Marù. Ci allontanammo così da
qualsiasi strada. Alejandro Stern mi spiegò il significato della parola
magica “Pizarra”. Erano tutti alla ricerca di queste lenti bianche
mescolate a quarzo siliceo, caolino e arenaria dalla forma arrotondata.
In queste, oro e diamanti erano presenti in un’altissima concentrazione.
I cercatori d’oro mi misero sotto il naso i cristalli d’oro più perfetti
che io avessi mai visto in tutta la mia vita. Alcuni dovettero rivoltare
il terreno che faceva da pavimento alla loro capanna per giungere al
loro nascondiglio.
Qui tutti speravano nel grande ritrovamento, in tanti chilogrammi di oro
o nei diamanti da dieci carati che avrebbero potuto raccogliere in una
settimana insieme all’oro. Se solo avessero avuto un gran colpo di
fortuna... Ciò nonostante, la vita, in queste zone, trascorreva
lentamente e felicemente per questi cercatori d’oro; infatti mi resi
rapidamente conto che la ricchezza, in realtà, non è mai dove viene
ritrovato l’oro. D’altronde dove avrei mai potuto trovare sogni e
speranze più grandi?
Facemmo quindi visita a un “garimpeiro” dopo l’altro. I militari,
lamenta la gente, avevano di nuovo distrutto volutamente le loro draghe
primitive e altri attrezzi usati dai cercatori d’oro. Il motivo di tale
gesto era la violazione della legge secondo cui era severamente vietato
cercare l’oro nell’intero territorio amazzonico. Ancora una volta si
trovarono costretti a riparare alla meno peggio gli impianti di lavaggio
dell’oro fino a quando, in occasione della successiva retata, il gioco
non sarebbe ricominciato da capo.
Alejandro Stern ci raccontò che qui, in questa zona, la Gran Sabana,
venivano scoperte quasi ogni anno nuove meraviglie della natura. La
scoperta del fiume Jaspis risaliva a poco tempo prima. Non solo;
venivano continuamente alla luce anche nuove "Crystal-Valley". Proprio
il mondo dei Tepui sembrava pieno di cristalli. Quando scalammo il
Roraima, il monte a tavola più grande del mondo, fummo avvolti dal
respiro di questo mondo primitivo: tutto intorno a noi migliaia e
migliaia di cristalli di rocca. Dalle fessure dei cristalli crescevano
fiori e i laghi brillavano della luce di questi minerali. Affiorò così
un mondo sempre nuovo da esplorare.
Capitava spesso che i cercatori d’oro, tutti sudici, ci facessero vedere
il contenuto dei loro fazzoletti, mostrandoci così veri e propri tesori.
A volte si trattava di cristalli d’oro color giallo brillante che
splendevano nella loro magica perfezione, altre di un ricciolo d’oro o
di oro di forma dendritica oppure di foglioline d’oro, che ricordavano
le foglie delle felci come se l’oro conservasse ancora in sé i suoi
ricordi degli antichissimi mondi preistorici in cui aveva preso forma.
Breve introduzione geologica sui giacimenti di oro e diamanti
della Gran Sabana
Con il termine “Pizarra”, ossia strato di argilla, i cercatori d’oro e
diamanti denominano quel conglomerato magico costituito da quarzo
siliceo, arenaria, laterite di forma arrotondata e da una percentuale
elevata di minerali radioattivi accompagnatori quali l’uranio e il
torio. Ciò nonostante, rispetto soprattutto agli strati più ricchi e più
abbondanti emergono numerose questioni irrisolte. In particolare non è
certo se sia possibile attribuire le condizioni del loro sviluppo ad
epoche esatte oppure se si debba semplicemente accettare come assodato
il fatto che numerosi eventi di minima entità, distribuiti nel corso di
milioni di anni, abbiano determinato la genesi di questi luoghi così
unici al mondo.
È comunque certo che le origini risalgono a processi avvenuti nel
Precambriano quando, circa 3,6 miliardi di anni fa, si sono formate le
prime rocce ricche di pirosseno. Il magmatismo ma anche processi di
trasformazione metamorfici, nelle successive centinaia di milioni di
anni, hanno causato la trasposizione di questo cosiddetto Scudo della
Guyana e la formazione di un paesaggio geologico multiforme, denominato
Gruppo Roraima, dal nome di uno dei monti a tavola più imponenti. Tutti
questi processi avvalorano appieno le teorie sulla migrazione dei
continenti di Alfred Wegener, ma alcuni geologi hanno trovato pezzi
mancanti del puzzle anche sulla costa occidentale dell’Africa.
La ragione per cui da Zapata proverrebbero così tanti cristalli d’oro, è
stata oggetto di lunghi dibattiti. I vari pareri in merito sono tra loro
discordi. Gli studiosi hanno infatti opinioni diverse sul fatto che
siano di origine alluvionale, quindi siano stati depositati a riva, o
che si siano generati nel “Pizarra”. Alla fine è prevalsa l’idea che
l’oro si sarebbe cristallizzato in queste rocce sedimentarie attraverso
processi naturali estremamente rari. Lunghi spostamenti avrebbero
infatti distrutto i cristalli. Un luogo di ritrovamento dell’oro
caratterizzato da circostanze analoghe sono le Bear Mountain canadesi
nel British Columbia (Callèn 2011). Ciò che colpisce è il fatto che,
talvolta, cristalli d’oro di forma scheletrica sono pieni di quarzo. In
questo caso, surriscaldamenti idrotermali locali potrebbero aver
determinato la cristallizzazione dell’oro e quindi del quarzo. È certo
che i cristalli d’oro, che ammaliano per la loro perfezione, il loro
splendore e le loro dimensioni, siano essi isolati o aggregati in
gruppi, non avrebbero potuto tollerare spostamenti più lunghi, poiché
sarebbero stati certamente distrutti. Sono stati per lo più rinvenuti
cristalli ottaedrici, nei quali la presenza assai frequente di spigoli
era talmente dominante da dare origine a forme scheletriche, le quali
hanno reso particolarmente famosi soprattutto i luoghi di ritrovamento
nei pressi di Zapata.
I primi cercatori d’oro europei raggiunsero queste aree sperdute
dell’Amazzonia intorno al 1720 ma a questi avventurieri non si poté
attribuire nessun particolare successo fino al XIX secolo. Queste aree,
che si estendono da Orinoko fino all’Amazzonia, erano idonee
all’estrazione industriale solo in determinate circostanze. Tanto più
per ogni genere di avventuriero proveniente da ogni parte del mondo. Nei
punti più distanti, soprattutto lungo il tratto da Ciudad Guayana,
passando per Eldorado, a Santa Elena de Uairén, trovammo scavi di
prospezione, dai quali si ricavavano oro e diamanti ma solo per breve
tempo. Nei periodi successivi, infatti, erano oggetto solo di vane
ricerche e la loro storia era ormai superata. La località di Upata,
fondata dai cappuccini nel 1762, era un tempo una delle più importanti
piazze commerciali dell’oro. Proprio come Guasipati. El Callao aveva
invece fatto parlare di sé alla fine del secolo scorso per i
ritrovamenti d’oro dalla leggendaria abbondanza. I francesi scoprirono
una miniera d’oro, che all’epoca doveva essere stata la più grande del
mondo, così fruttuosa da potersi far spedire dalla Francia tutti i beni
di lusso che più desideravano. Di tutto questo oggi è rimasto ben poco;
per questo un negozio su due mette in vendita gioielli d’oro come se gli
uomini non avessero bisogno di null’altro.
Foto:
Letteratura
Michael Wachtler, 2009/10 Ricerca di un tesoro nella giunga del
Venezuela: nel paese dimenticato dell’oro e dei diamanti, Lapis - Monaco
Callèn Joaquim, 2011: Ikabarù – Gold crystals in the Venezuelan jungle.
Mineral Up Barcellona
Michael Wachtler, 2010:
Lo scrittore Michael Wachtler ha compiuto vari viaggi nella giungla
dell’Amazzonia e ha accompagnato Alejandro Stern nei più interessanti
luoghi di ritrovamento dell’oro. Era soprattutto attratto dagli
splendidi cristalli d’oro della Gran Sabana venezuelana.
Michael Wachtler
Rainerstraße 11
39038 Innichen/San Candido
Italia
michael@wachtler.com
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